“Sotto la lente” da prospettive diverse
Kato Havas: ai più questo nome non dirà nulla. Violinista ungherese, da piccola era una bambina prodigio; suonava lo strumento con la facilità e l’incoscienza che a volte i bambini hanno. Negli anni diviene una protagonista importante nei teatri del mondo, ma l’ansia per le esecuzioni sul palco la atterrisce. Si ritira, ma dopo qualche anno comincia a farsi qualche domanda. Come fanno, si chiede con insistenza, i violinisti tzigani a suonare con tanta leggerezza e facilità? Da qui inizia la sua straordinaria riflessione che la porta ad inventare un nuovo approccio all’uso del violino. Da allora, non si suonerà più sul violino, ma con il violino.
Quale novità introduce la Havas? La maestra suggerisce l’idea – rivoluzionaria per quei tempi (siamo nel 1960) – che il corpo del musicista debba essere protagonista ed insegna agli allievi come ascoltarlo, come aiutarlo ad entrare in contatto con il violino, invece di accanirsi sul violino, ripetendo meccanicamente un passaggio fino alla riuscita, anche a costo di grandi dolori e fatiche. Oggi, anche grazie a lei, le tecniche di rilassamento e le strategie legate ad un buon uso del corpo sono finalmente parte di una buona lezione di musica.
Parto da qui, dalla musica, contesto che mi è caro, per riconoscere quanto troppo spesso il corpo sia invece ignorato: non solo non ne ascoltiamo i segnali, i messaggi, ma non consideriamo possibile ripartire proprio dal corpo, quando siamo in ansia, o stressati, o sotto pressione. Personalmente, solo per fare un piccolo esempio, quando non riesco a scrivere o a pensare, vado a correre e magicamente le idee si allineano, si liberano, si formano.
Il corpo sa, ricorda, registra, comunica e mentre noi pensiamo di avere un corpo, dimentichiamo che invece siamo il nostro corpo e che spesso è proprio a lui che potremmo rivolgerci per avere le risposte che cerchiamo. Una mia insegnante spesso ripeteva “la mente mente”, con un gioco di parole in cui il secondo “mente” è il verbo che ci rimanda ad un autoinganno, alle bugie che a volte inconsapevolmente ci raccontiamo, ma che non corrispondono a ciò che davvero desideriamo.
Il corpo non mente, lui sa e spesso parla.
Certo, non mi nascondo, che a volte è difficile ascoltare il corpo e penso a tutte quelle situazioni in cui esso è diventato il teatro della sopraffazione dell’altro (abusi, violenze, maltrattamenti, svalutazioni): il corpo è, in quei casi, intrappolato nel trauma e solo un avvicinamento cauto, lento, paziente può piano piano liberarlo e restituirlo pienamente, nonostante sia ferito, alla persona.
Anche in quei contesti così duri, è sempre lui a chiederci un riparo, un’accoglienza, una possibilità di essere ascoltato e compreso.
E la mente dunque? La mente, a volte, inganna! Ma è solo questo, Massimo?
Quale novità introduce la Havas? La maestra suggerisce l’idea – rivoluzionaria per quei tempi (siamo nel 1960) – che il corpo del musicista debba essere protagonista ed insegna agli allievi come ascoltarlo, come aiutarlo ad entrare in contatto con il violino, invece di accanirsi sul violino, ripetendo meccanicamente un passaggio fino alla riuscita, anche a costo di grandi dolori e fatiche. Oggi, anche grazie a lei, le tecniche di rilassamento e le strategie legate ad un buon uso del corpo sono finalmente parte di una buona lezione di musica.
Parto da qui, dalla musica, contesto che mi è caro, per riconoscere quanto troppo spesso il corpo sia invece ignorato: non solo non ne ascoltiamo i segnali, i messaggi, ma non consideriamo possibile ripartire proprio dal corpo, quando siamo in ansia, o stressati, o sotto pressione. Personalmente, solo per fare un piccolo esempio, quando non riesco a scrivere o a pensare, vado a correre e magicamente le idee si allineano, si liberano, si formano.
Il corpo sa, ricorda, registra, comunica e mentre noi pensiamo di avere un corpo, dimentichiamo che invece siamo il nostro corpo e che spesso è proprio a lui che potremmo rivolgerci per avere le risposte che cerchiamo. Una mia insegnante spesso ripeteva “la mente mente”, con un gioco di parole in cui il secondo “mente” è il verbo che ci rimanda ad un autoinganno, alle bugie che a volte inconsapevolmente ci raccontiamo, ma che non corrispondono a ciò che davvero desideriamo.
Il corpo non mente, lui sa e spesso parla.
Certo, non mi nascondo, che a volte è difficile ascoltare il corpo e penso a tutte quelle situazioni in cui esso è diventato il teatro della sopraffazione dell’altro (abusi, violenze, maltrattamenti, svalutazioni): il corpo è, in quei casi, intrappolato nel trauma e solo un avvicinamento cauto, lento, paziente può piano piano liberarlo e restituirlo pienamente, nonostante sia ferito, alla persona.
Anche in quei contesti così duri, è sempre lui a chiederci un riparo, un’accoglienza, una possibilità di essere ascoltato e compreso.
E la mente dunque? La mente, a volte, inganna! Ma è solo questo, Massimo?
Alcesti Alliata
Che dire amica, sicuramente la mente è più capace di mentire mentre il corpo spesso è l’unico a non scendere a compromessi, il solo che non accetta la deformazione della realtà così cara a noi “mediamente nevrotici”.
E pensare che a leggere le pagine della genesi: “all’inizio era il Verbo….” già da subito riusciamo a comprendere la funzione creatrice della parola; la parola ri-crea, cioè rende pensabile qualcosa che prima, quando semplicemente esisteva ma non aveva un nome, non era pensabile.
Bella scoperta per i bambini la parola, dapprima “olofrastica” (brutta parola per dire che con una parola rappresentiamo tutto) e poi sempre più specifica, localizzata, esatta.
La tradizione ebraica e da lì tutta la pratica psicoanalitica che alla tradizione ebraica deve la propria invenzione, nasce di fatto come una pratica fatta di parole. Lo stesso Freud rimase stordito e sorpreso di come la parola, ovvero il fare diventare parola (e dunque poter pensare) un conflitto innominabile, di fatto liberava il corpo delle pazienti, dissolvendo il sintomo fisico.
A mio modo di vedere lo spazio di incontro tra corpo e mente, tra immagine e espressione è quello dell’intuizione, dell’istinto. Tutte le volte che ci viene un’idea, una parola, ma non sappiamo come è arrivata, allora a me sembra che il corpo ci abbia parlato, oppure per converso che noi si sia riusciti a dare una parola al sentimento, alla spinta di dentro.
Allora, per rispondere alla domanda che ci stiamo facendo dobbiamo trovare il modo di cogliere interamente corpo e mente, di tenerli insieme, trovando un’armonia che sia in grado di liberare il corpo dalla rigidità e dal dolore delle emozioni rimaste imprigionate ed allo stesso tempo cercare una parola che non sia sola espressione della razionalità.
Una parola calda, morbida, creativa e creatrice, che nel cercare di descrivere l’esistenza non si perda nel voler essere vera ma accetti la carne, le tentazioni, gli appetiti ed i dolori che ne conseguono.
Rimanendo quindi nella metafora che ci indicano le Scritture, occorre che il verbo si faccia carne, che accetti la fatica, il peso, l’odore ed il sudore di un vivere che, esondando dalla radura della sola razionalità, si faccia poesia, amore… vita.
E pensare che a leggere le pagine della genesi: “all’inizio era il Verbo….” già da subito riusciamo a comprendere la funzione creatrice della parola; la parola ri-crea, cioè rende pensabile qualcosa che prima, quando semplicemente esisteva ma non aveva un nome, non era pensabile.
Bella scoperta per i bambini la parola, dapprima “olofrastica” (brutta parola per dire che con una parola rappresentiamo tutto) e poi sempre più specifica, localizzata, esatta.
La tradizione ebraica e da lì tutta la pratica psicoanalitica che alla tradizione ebraica deve la propria invenzione, nasce di fatto come una pratica fatta di parole. Lo stesso Freud rimase stordito e sorpreso di come la parola, ovvero il fare diventare parola (e dunque poter pensare) un conflitto innominabile, di fatto liberava il corpo delle pazienti, dissolvendo il sintomo fisico.
A mio modo di vedere lo spazio di incontro tra corpo e mente, tra immagine e espressione è quello dell’intuizione, dell’istinto. Tutte le volte che ci viene un’idea, una parola, ma non sappiamo come è arrivata, allora a me sembra che il corpo ci abbia parlato, oppure per converso che noi si sia riusciti a dare una parola al sentimento, alla spinta di dentro.
Allora, per rispondere alla domanda che ci stiamo facendo dobbiamo trovare il modo di cogliere interamente corpo e mente, di tenerli insieme, trovando un’armonia che sia in grado di liberare il corpo dalla rigidità e dal dolore delle emozioni rimaste imprigionate ed allo stesso tempo cercare una parola che non sia sola espressione della razionalità.
Una parola calda, morbida, creativa e creatrice, che nel cercare di descrivere l’esistenza non si perda nel voler essere vera ma accetti la carne, le tentazioni, gli appetiti ed i dolori che ne conseguono.
Rimanendo quindi nella metafora che ci indicano le Scritture, occorre che il verbo si faccia carne, che accetti la fatica, il peso, l’odore ed il sudore di un vivere che, esondando dalla radura della sola razionalità, si faccia poesia, amore… vita.