E se per cambiare servisse… mollare la presa?

“Sotto la lente” da prospettive diverse

“Quando arriva la tempesta il marinaio esperto sa che deve allontanarsi dal porto, mollare gli ormeggi. Rimanere ancorato saldamente alla banchisa, cercare un appiglio o un approdo finirebbe col trasformare l’attaccamento alla terraferma in una rovina sicura”. Così Herman Melville nella sua geniale opera Moby Dick, sembra suggerirci che a volte rimanere attaccati alle cose può divenire la strategia meno produttiva.
 
Cercando di portare a terra la metafora, pensando ai fatti della vita quotidiana, credo che ciascuno di noi a suo modo nelle tempeste della vita si è trovato a fare i conti con questo tipo di scelta: lascio andare tutto, mi consegno all’inevitabile tempesta? O, a qualsiasi costo, decido di non cambiare, rimanendo ancorato alle mie certezze, anche se rappresentano più un ostacolo che una liberazione?
 
A pensarci bene però la vita a volte ci mette di fronte a decisioni che possono avere esiti interessanti se percorriamo strade contro intuitive ossia se non decidiamo di assecondare la spinta automatica di contrapposizione che spesso ci viene dalla nostra programmazione primitiva. Parlando con una giovane madre, ad esempio, mi venne riferito che durante il travaglio la levatrice le suggeriva di evitare di contrapporsi alle contrazioni molto dolorose, al contrario di collaborare con esse, di percorrere quindi una via di un temporaneo aumento del dolore proprio per assecondare il movimento e ridurre il tempo del travaglio. Insomma, se accolgo il dolore, lo assecondo, lo amplifico, in un primo momento posso, nella fiducia che questa sofferenza e questa prova abbiano un significato, accogliere conoscere e gestire tutto il complesso processo che sto attraversando.
 
Spesso le persone che incontro nel mio lavoro si presentano doloranti, arrabbiate, piene di rammarico e per certi versi non vogliono fare entrare quel dolore, quella rabbia, quel rammarico dentro di loro, nella paura profonda di venirne sopraffatti, di perdere la spinta e in alcuni casi addirittura il senno. Allora, ripercorrono, in solitudine, mille volte la strada di ciò che è accaduto, di ciò che fa soffrire, delle scelte che avrebbero potuto fare e non hanno fatto, nel tentativo di allontanarsi il più possibile da quel dolore per respingerlo, non attraversarlo, evitando di andare avanti.
 
La dimensione terapeutica, la strada che insieme cerchiamo di affrontare, non propone sconti al dolore, vie di fuga o dimensioni controfattuali, ma cerca di aiutare la persona a non sentirsi sola, ad avere un compagno di viaggio, a stare nel presente e non fuggire nel futuro o nel passato. Se non sono solo, se nessuno mi giudica, se qualcuno mi sta accanto senza sostituirsi a me allora forse riuscirò a non arretrare, a fare esperienza di quel dolore di quella rabbia, a comprenderne il senso e ad immaginare che dopo la notte che sto attraversando sicuramente arriverà il mattino.
 
Tutto questo è possibile solo se riesco a distaccarmi dal giudizio, dal critico interiore, da quel genitore interno che per aiutarmi mi comanda di essere diverso, dicendomi che così come sono, sono sbagliato.

Massimo Buratti

Una teoria nota, almeno agli addetti ai lavori (l’Analisi Transazionale), a proposito della difficoltà che tutti noi abbiamo a lasciare andare situazioni, persone, comportamenti poco funzionali, affrontando anche il dolore che questo comporta, parla di vantaggio secondario. Molto sinteticamente, la domanda che ci pone è pressapoco questa: qual è il vantaggio di mantenere vive situazioni che ci fanno male o non ci soddisfano più?
 
Quando faccio questa domanda, in genere la persona di fronte a me rimane sorpresa, perché metto in luce due aspetti: in primo luogo, è una domanda che riporta su di sé la responsabilità delle cose e invita a pensare a ciò che noi stessi mettiamo in atto, piuttosto che guardare all’altro (come accade quando diciamo: è colpa di mia moglie, di mio marito, del mio capo, della pioggia, del sole…). In secondo luogo, spiazza perché la parola vantaggio rispetto ad una situazione che ci fa soffrire sembra fuori luogo: ma anche questo spiazzamento diventa – se affrontato insieme – un invito interessante.
 
Ma devo fare un esempio per essere compresa, credo: ho seguito per molto tempo un giovane uomo che conviveva, da qualche anno, con la sua fidanzata. Il rapporto era burrascoso e la dinamica era più o meno questa: lei lo provocava, toccando alcuni suoi punti deboli e lui, punto sul vivo, rispondeva, portando il litigio al livello superiore e, dritto dritto, verso un gioco di recriminazioni e giudizi vicendevoli. Questo giovane uomo mi portava in seduta la difficoltà rispetto all’atteggiamento di lei, al suo modo di provocare, a lei così e a lei cosà.
Ecco, quando la cosa si ripete per mesi e mesi sempre uguale, forse vale la pena fare quella domanda: “che vantaggio secondario ottiene, continuando a rispondere alle provocazioni?” Spiazzato dalla domanda, mi risponde: “mi pare che così facendo non penso alla mia vita e realizzazione personale: sono troppo impegnato ad averla vinta con lei”. Sorprendente risposta, che ci sposta dal litigio (e dalla richiesta a me del tipo “dimmi chi ha ragione” o anche “vero che ho ragione?”) alla motivazione personale e profonda che lo portava ad “abboccare” sempre allo stesso amo.
 
Nominare un vantaggio secondario, irrazionale e inconsapevole ci porta lontano dal tribunale del torto e della ragione e ci esorta a farci domande interessanti e personali: che significato ha per me quel battibecco sempre rinnovato? E soprattutto: è ancora utile per la mia vita metterlo in scena? E se sì, che senso ha per me?
 
Magicamente ci troviamo, insomma, nel mare aperto, direbbe Melville, del nostro personale mondo interno, con la possibilità, se non lo affrontiamo da soli, di incontrare noi stessi e raggiungere nuovi e vitali approdi. L’unico modo, però, è mollare la lancia e con essa Moby Dick, per evitare di farci trascinare sul fondo, sospinti dall’odio e dalla vendetta di Achab!

Alcesti Alliata

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