Oltremare: molto molto lontano, così vicino.

“Sotto la lente” da prospettive diverse

I barconi sono tutti uguali. I naufragi, a volte, càpitano. I morti sono gli altri. Stranieri, estranei, corpi senza nome, che arrivano da non-si-sa-dove.
 
Sarà forse per questo cortocircuito del pensiero, che mi ha colpito in pieno viso l’intervista di La Repubblica a Vincenzo Luciano, il pescatore che il 26 febbraio del 2023 si trovò suo malgrado sul luogo, tragico, di un naufragio, a Steccato di Cutro, in Calabria.
È mattina presto, Luciano arriva con la sua auto davanti alla spiaggia: deve ritirare le nasse e prepararsi al lavoro, ma delle voci lo chiamano, chiedono aiuto. In riva al mare, la tragedia: c’è “una distesa di morti” racconta Luciano, che prontamente si butta in acqua a salvare soprattutto loro, i bambini, “quei bambini con gli occhi aperti” che gli muoiono fra le braccia.
 
A un anno dall’accaduto, Vincenzo non riesce a tornare in mare: i suoi compagni hanno cercato di riportarlo sulle sicure barche da pesca, ma lui non è riuscito. “Portatemi subito sulla terraferma – ha detto – perché mi vengono dei ricordi bruttissimi”. Quando tira su le reti, gli sembra di pescare morti: non può levarsi dalla testa quei ricordi.
I ricordi restano, restano”. Tangibili e veri toccano le nostre vite di ogni giorno.
 
Mi tengo volutamente lontana dai ragionamenti politici e ripenso ad un piccolo libro di Jean-Luc Nancy, L’intruso, volumetto di 40 pagine, in cui il filosofo racconta della sua dolorosa esperienza del trapianto di cuore, facendone una metafora preziosa. L’intruso è il cuore nuovo, un organo estraneo, straniero, che salva la vita e al tempo stesso la minaccia: per poterlo accogliere in petto e non incorrere nel pericolo del rigetto, infatti, occorre abbassare clinicamente le difese immunitarie. Non è scontato accogliere l’altro, lo straniero, sembra dirci Nancy: è necessario abbassare le nostre barriere difensive, se si vuole sopravvivere.
 
Non è tutto: abbassare le difese immunitarie, provoca la comparsa di alcuni virus sopìti e sconosciuti nel corpo di Nancy e lui stesso dovrà combattere addirittura con un cancro. Come dire: per accogliere l’altro, dobbiamo divenire estranei anche a noi stessi. Ammette Nancy: “Sono io stesso il primo straniero, da sempre, già prima del trapianto: è questo che mi incuriosisce”.
 
In una metafora in cui estraneità e identità perdono i loro chiari confini perché l’una ha, in qualche misura, bisogno dell’altra, mi sembra di assistere al crollo di qualche certezza: chi è straniero? Cosa vuol dire identità? Ma soprattutto: la seconda ha senso senza la prima?
 
Quando poi, come mi sembra che accada ogni tanto, l’altro, l’altrove, il corpo-senza-identità, il barcone-fra-i-tanti diventano anonimi e molteplici e senza voce, credo occorra urgentemente rimettere l’accento sulle somiglianze, sulle appartenenze, sul nome proprio, sui corpi reali che Luciano, per tutti noi, ha portato in braccio.
 
“Sono i nostri figli”. Nostri, dice il pescatore.
 

Alcesti Alliata

Erano strani, barbe e capelli lunghi, parlavano con una lingua incomprensibile, si vestivano in modo diverso, adoravano altri Dei. Alcuni li chiamarono longobardi, dalle lunghe barbe, altri invece cercando di imitarli nel loro parlare (barrrrr, barrrr..) li chiamano barbari.
In ogni caso, tutti concordi nel vederli diversi, strani, dunque stranieri; da qui arriva la parola, nella doppia consonanza di estraneo, al di fuori della nostra cerchia, e strano, imprevedibile, pericoloso.
 
Il timore per lo straniero, dunque, è in qualche modo insito nel nostro modo di essere nel mondo, da sempre siamo programmati ed organizzati per alzare le difese contro chi arriva da fuori.
 
A pensarci bene però è proprio da fuori e nella dialettica col fuori che spesso avvengono gli incontri più fecondi, e questo i popoli di mare, i commercianti, i viaggiatori lo sanno.
È attraverso il mare che sono arrivati i numeri arabi (appunto dall’Arabia), i pomodori, le patate, ma anche altre cose apparentemente assunte come “nostre”. La bistecca ad esempio, parola dalle origini nord europee, contrazione di beef-steack, importata dalla tradizione dei popoli nordici di mangiare la carne di manzo tagliata a fette.
 
Allora facciamocene una ragione, e lo dico soprattutto ai miei corregionali poco abituati ad aprirsi verso lo strano straniero, e cerchiamo di fare spazio per mettere dentro di noi l’Altro, sentire un po’ che effetto fa, come si sta a tenere in bocca una spezia mai provata, a sentire nuovi odori, a reggere sguardi mai visti.
 
Si tratta dunque di accogliere, comprendere… comprendere e non capire, fare esercizio di intuizione ed immedesimazione. Comprendere e non capire, non esercizio corticale di valutazione e giudizio, non traduzione del mondo dell’altro, bonifica, colonizzazione.
La sfida più grande è da sempre e sarà sempre la carne, comprendere è tenere dentro, sentire, non giudicare, non mettere l’etichetta sul vaso della marmellata… in fondo si tratta solo di vivere.

Massimo Buratti

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