Un albero di noce per puntare alla luce: come l’antifragilità ci aiuta a cambiare.

“Sotto la lente” da prospettive diverse

Avevo 10 anni ed abitavo in Valsesia, un piccolo paese in provincia di Novara. Mio nonno, un personaggio di pochissime parole, molta lentezza ed un sorriso ironico sempre stampato in viso, piantò sotto il portico del garage, un piccolissimo albero di noce. Io osservavo con molta curiosità ed una certa dose di venerazione quell’uomo gigante dalle poche parole.
 
Il tempo passa come direbbe Faber “a passo di Giava” ed eccomi qui, dopo 49 anni, di fronte ad un albero gigantesco, sotto il quale nelle ore estive mi metto a leggere e pensare. È tutt’altro che un albero come quelli che vediamo nei libri di scuola: tutto nodoso e storto, proteso in avanti sembra dover cadere da un momento all’altro, ma di fatto, è ben radicato e terribilmente saldo. Ai tempi fu piantato, infatti, sotto al tetto, ma lui, alla ricerca ostinata della luce, elemento vitale per la sua sopravvivenza, giorno dopo giorno, anno dopo anno, si è deformato, piegato, spostato, orientato, fino a riuscire a svettare fuori dal tetto, a raggiungere una posizione migliore.
 
Sarà l’età, sarà che come dice Ligabue, si nasce incendiari e si muore pompieri, ma spesso mentre godo della sua ombra e sento il suono del vento che muove le foglie, penso: a vederlo da fuori molti di noi vedrebbero un albero storto, uno scherzo della natura, una situazione da raddrizzare e se non si riesce, da scartare.
 
E poi penso a tutte le persone che incontro nel mio lavoro, alberi storti, senza foglie, piegati, in parte morti, sbilanciati, appesantiti, feriti. Inchiodati. Che fare allora? C’è un approccio che ha le idee chiare, che nasce come scienza della misurazione, che raddrizza le piante storte, abbatte quelle che non possono essere raddrizzate, nel delirante disegno di foreste fatte di alberi dritti tutti uguali, finalmente normalizzati. Io invece la penso un po’ come ci dice il Talmud, “solo il costruttore di bare può misurare gli umani” e allora mi sembra che il mio mestiere sia quella di cominciare ad apprezzare tutti gli alberi, quelli dritti, quelli storti, quelli alti, quelli bassi: proprio la loro deformità ci indica che quello che conta è avere la determinazione di sapere, di sentire, dov’è la luce e di puntare dritto verso quella direzione.
 
Allora tutta quella imperfezione, tutto quello che ci discosta dall’albero ideale, è un monumento alla fatica, al dolore, ma anche alla flessibilità, che ci porta ad andare sempre nella direzione del sole.
Se davanti all’altro-da-noi riusciamo a sentire tutto questo, a sospendere il giudizio, a vedere la luce dove si vede solo ombra, a sentire nell’odore dell’altro l’odore comune dell’umano, allora daremo a noi e all’altro la possibilità di puntare verso la luce, con calma, con fatica, ma insieme.

Massimo Buratti

Possiamo definire questo albero resiliente? A guardare l’etimologia ed il significato della parola, sembra proprio di no. Resiliente è chi resiste all’urto degli eventi ed è in grado di “risalire” sulla barca quando questa si è capovolta, a causa di accadimenti avversi: una capacità essenziale che riporta l’individuo alla situazione precedente, prima dell’urto, insomma.
Il nostro albero no: si è adattato alla difficoltà, non ha ceduto rispetto alla propria fragilità e ha addirittura cambiato se stesso, per raggiungere il suo obiettivo (la luce).
 
Tutto questo, mi porta a ripensare a quello che lo studioso libanese, Nassim Taleb, ha definito antifragilità. Non ci inganni la parola, però: antifragile non è colui che disdegna la vulnerabilità e la elimina dalla propria vita, ma al contrario è colui che fa della fragilità, dell’incertezza e dell’apertura al cambiamento le chiavi della propria evoluzione. Per usare le parole di Taleb, colui che “è resiliente resiste agli shock e rimane identico a se stesso, l’antifragile migliora”.
 
Occorre però riconsiderare tutte quelle esperienze che getteremmo via, rileggere gli inciampi, gli errori, le cadute, come opportunità creative e concrete per migliorare noi stessi. Cosa ci impedisce di farlo? Tutte quelle cose che l’albero non fa: giudicare noi stessi, lamentarci, colpevolizzare l’altro, vergognarci e così via. Il piccolo noce si limita a assecondare quella che Carl Rogers, psicologo del secolo scorso, ha definito la tendenza attualizzante, ossia la tendenza di ogni organismo vivente (noi compresi!) ad andare verso l’autorealizzazione, la crescita e l’arricchimento.
 
L’antifragile migliora nelle avversità e può farlo perché ristruttura la realtà, riesce a darle nuovi significati. A questo proposito, due cose mi vengono in mente. La prima è la storia straordinaria della pittrice messicana Frida Kahlo e del noto incidente che trasformò la sua immobilità temporanea e terribile in arte: colonna vertebrale spezzata in tre punti, femore e costole fratturate, anca sinistra trafitta dal passamano del tram su cui si trovava, piede e spalla danneggiati. Trentadue operazioni chirurgiche e poi un letto, uno specchio, una tela e dei pennelli: Frida si riprende la sua vita e ridisegna il suo destino, passando da vittima a mito.
 
La seconda è il “fattore Ulisse”, così definito da Umberto Pellizzari, apneista che ha conquistato tutti i record mondiali nella sua disciplina: un fattore che spinge ad andare oltre il limite, per incontrare se stessi nella propria autenticità (un po’ come ha fatto il nostro noce iniziale).
Tutto ha un limite”, dice l’atleta “tranne l’uomo. È essenziale per la natura umana superare continuamente se stessa e non rinunciare a qualsivoglia traguardo o desiderio”.

Alcesti Alliata

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