Alleati del benessere emotivo: il potere trasformativo di musica e poesia.

“Sotto la lente” da prospettive diverse

Ha senso parlare di musica e del suo potere terapeutico? C’è ancora spazio per la poesia? Queste arti sono in grado di accompagnarci nelle nostre vite di tutti i giorni? Ci siamo fatti queste domande, in questi giorni, e abbiamo cercato di dare forma al nostro personale pensiero.
 
Ad alcuni piace la poesia. Inizia così una delle più belle poesie di Wislawa Szymborska. Ad alcuni. Cioè non a tutti. / E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza. Poi ironizza: Piace – / ma piace anche la pasta in brodo. Pochi versi, una manciata di parole e siamo nel mezzo di una verità: la poesia è difficile, complicata e non tutti hanno il tempo e la voglia di comprenderla. 
Valeria, 18 anni (il nome è di fantasia): è venuta da me, in studio, per più di un anno, perché faceva fatica, sembrava persa, lontana dalle cose del mondo. Non parlava molto, e quando lo faceva, le sue frasi erano misurate, per un motivo che mi ha anche dichiarato: non sapeva se poteva fidarsi di me, un altro da sé che con buona probabilità non l’avrebbe capita. Nel tempo, mi ha raccontato il suo mondo, i suoi pensieri, le sue paure e così ci siamo trovate a pensare insieme pensieri indicibili. Qualche volta però arrivava e non parlava: il silenzio fra noi si faceva pesante, un macigno, e la distanza si faceva totalizzante. Così, un giorno di questi, le ho passato una poesiaDove ti sei perduta / da quale dove non torni, / assediata / bruci senza origine. / Questo fuoco /deve trovare le sue parole / pronunciare condizioni / di smarrimento dire: / “Sei l’unica me che ho / torna a casa” (C. L. Candiani). 
Ancora una manciata di parole, per dire tanto con poco, per dare l’occasione di ascoltarsi e per provare a trovare un’intesa, anche nel silenzio. D’altra parte, la poesia non è solo suono: è fatta anche di silenzi, quelli del foglio che per metà resta bianco, quelli che dividono in due una frase e a volte la parola stessa, che si fa quasi singhiozzo. Ma forse più di tutto, la poesia tiene insieme cose differenti: riesce a fare associazioni improbabili e a creare immagini, che più di molte parole arrivano al cuore delle cose. La poesia crea mondi, potremmo forse dire. E non solo: sembra “portare in sé un segreto”, se diamo retta a Ungaretti. 
È dunque difficile la poesia? Magari fuori moda? Io sono più portata a pensare che può dirci qualcosa se restiamo in ascolto e le lasciamo spazio. Credo che quando quel segreto risuona e somiglia al nostro, possiamo sentirci meno soli: i versi infatti non consolano e non orientano, ma  accompagnano, mettono in comunione, dialogano con noi in un modo speciale.
È forse per questo che io la poesia la utilizzo, nella clinica e nella formazione, oltre che nella mia vita: perché immagino di poter incontrare l’altro, in una dimensione meno chiara ed esplicita (la poesia, infatti, allude, non dichiara) ma comunque vitale e generativa
Tutto questo non perché la poesia è buona e fa del bene, ma perché è in grado di dare voce allo smarrimento, al senso di impotenza, al dolore, alle contraddizioni, all’inquietudine. 
Dar voce all’umano, in definitiva. 

Alcesti Alliata

A dodici anni si hanno un sacco di paure, nel mio caso era un assillo, paura del buio, un esame che tutti i giorni cercavo di superare ma che spesso mi incatenava. 
I miei genitori ebbero una brillante idea, farmi studiare musica, così ogni lunedì sera alle 20.30 andavo a scuola di musica, da solo. Altri tempi: percorrevo una distanza per me all’epoca siderale (300 metri) in solitudine e poi, una volta arrivato nei pressi della scuola il passaggio più complesso… percorrere gli ultimi 80 metri lungo una strada senza uscita e scarsamente illuminata. 
Fu in modo naturale, senza che me ne accorgessi che cominciai ad affidarmi alla musica, canticchiavo, fischiettavo: improvvisamente mi sentivo meno solo, riuscivo ad avere una ‘colonna sonora’ che mi accompagnava nella difficile operazione di superare il buio. 
Tutte le volte che mi capita di riflettere sul potere terapeutico della musica, sull’utilizzo della musica nella terapia, nella riabilitazione, nella formazione, non posso che ripensare a come nella mia vita sia avvenuto tutto in modo automatico e spontaneo. 
Sono convinto che la musica in sé abbia potere terapeutico proprio per essere un “sistema di attese” come la definì T.W. Adorno, ovvero un sistema che è in grado di riproporre una dimensione di aspettativa poi corrisposta, un dialogo spesso rassicurante tra il battere ed il levare, con una promessa che immancabilmente viene mantenuta.

Analizzata in verticale poi garantisce la possibilità di rappresentare tutti gli stati d’animo e da sempre è nota la sua capacità di eccitare, incupire, motivare, sensibilizzare; da sempre accompagna ogni nostra azione, si fa colonna sonora della nostra esistenza e dei momenti più pubblici e condivisi.

D’altra parte siamo da sempre immersi in un ritmo, da quello appreso durante la nostra vita prenatale, il ritmo del nostro cuore e di quello di mamma, cuori che si sincronizzano e cominciano un dialogo che non smetterà mai, anche lì un battere e levare, di nuovo. 
In questa epoca di iper specializzazioni, in questa ricerca affannosa di far diventare terapia qualsiasi pratica del far del bene a sé e agli altri, a me pare che la musica invece debba essere ritenuta una pratica utile all’intera umanità, ai presunti sani come ai malati, come la prassi dell’ascolto interiore, la poetica dell’incontro nella diversità e della ricomposizione dei conflitti (non a caso “concertare” vuol dire mettere d’accordo).

Anche oggi, quando mi tocca per mestiere cercare di aiutare persone che fanno i conti con le loro peggiori paure, quando la sera arriva di nuovo il buio, sempre più conosciuto ma sempre più scuro, mi sorprendo a canticchiare, a cercare conforto in quel battere e levare, in quella strada già percorsa che per me è strada di casa. 

Massimo Buratti

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